Una cartolina dal passato

Sin da piccola ho sempre amato il giardino di casa mia. Non era particolarmente grande ma in rapporto alle dimensioni della casa ricopriva una superficie abbastanza ampia*.

Era un giardino strano, su due piani: quello davanti alla cucina che tutti avevano sempre chiamato orto, ma dove non veniva coltivato niente e quello sopra la casa che era effettivamente un orto.

Lì, mio padre piantava insalata, pomodori, zucche, carote e qualche volta anche melanzane che a me piacciono tanto. Penso che curare l’orto sia stata da sempre la sua passione più grande, le sue piante erano creature da aiutare a crescere con amore.

Quando in estate, i pomodori iniziavano a maturare era un momento coloratissimo e mio padre li portava in cucina dentro grosse ceste di paglia. Era uno spettacolo per gli occhi, sembravano fiori ornamentali e non ortaggi e, quando ci penso, mi viene sempre in mente la poesia di Neruda “Ode al pomodoro”.

Io, invece, preferivo il giardino davanti alla cucina, dove ad un ramo di un pesco era appesa un’altalena, la mia altalena, che, dondolando, mi ha accompagnato durante tutta l’infanzia. C’era anche una piccola sdraia con i cuscini a fiori e quello era il mio luogo preferito per leggere in estate, ci trascorrevo le sere in cui non avevo voglia di uscire.

La casa, invece, mi è sempre sembrata insicura, non ho mai provato nostalgia per quelle stanze che non mi hanno dato calore, forse per colpa mia perché non ho mai cercato di personalizzarle, forse ero troppo piccola o forse troppo distratta.

Finalmente sono tornata e avverto una sensazione di pace dopo tanti anni mentre riapro la porta di quella casa che mi ha accolto per tutta la mia adolescenza, ma il mio più grande desiderio è rivedere il giardino. Sono emozionata come se dovessi rincontrare un amico a cui devo raccontare tante cose e forse anche lui, dopo tanto tempo, ha qualcosa da dirmi, qualcosa che non so.

Decidere di ritornare è stata una scelta difficile, ma ora ci sono: attraverso le stanze e l’atmosfera fredda e polverosa mi accompagna nella loro riscoperta. Entro in quella che era la mia camera dove ci sono ancora i libri di scuola, i quaderni, qualche bambola e le fotografie, tante fotografie dei momenti più belli della mia gioventù. Arrivo in cucina, mi sembra di sentire l’odore dell’arrosto, delle patate al forno e mi commuovo vedendo il tavolo dove ho passato tante ore a studiare.

Nella stanza dei miei genitori entro con un po’ di timore: sul comò c’è la fotografia del loro matrimonio e guardarla mi riempie di malinconia. Nella foto ci sono loro due, giovani sposi, sorridenti e felici che, attraverso lo sguardo, si fanno una promessa che vale più di cento parole. Purtroppo non ho avuto tempo di conoscere mia madre, è morta presto, troppo presto, io ero ancora una bambina. Uno dei pochi ricordi che ho di lei è la passione per le passeggiate: fin da quando ero piccolissima mi portava a camminare nei sentieri di campagna, inventando per me personaggi e storie strane che mi affascinavano e mi incuriosivano. Poi le passeggiate nei campi sono finite e dopo un periodo di malattia, un pomeriggio di gennaio mi hanno detto che era volata in cielo.

Mio padre, dal punto di vista sentimentale, è sempre stato un’incognita, non si è più risposato, anche se quando è rimasto solo era ancora giovane e bello.

Mi sono sempre ritenuta responsabile della morte di mia madre, questo senso di colpa mi accompagna da una vita, forse perché dopo pochi anni che sono arrivata io, lei se n’è andata per sempre.

Apro la porta del giardino e respiro a pieni polmoni, ora mi sento veramente a casa. Esploro con lo sguardo la siepe che dopo tanti anni è sempre verde e poi vedo quello che era il regno di mio padre: una piccola casa di legno dove riponeva attrezzi di ogni genere. Entro, tutto è rimasto come l’aveva lasciato, volgo il mio sguardo curioso qua e là, apro i cassetti di un mobile in legno dove riponeva la minuteria per le piccole riparazioni e mi accorgo che l’ultimo cassetto è semiaperto. Vado per chiuderlo, ma vedo spuntare una piccola scatola di legno che me lo impedisce, al suo interno ci sono delle lettere, mi sembra la grafia di una donna.

Prendo la scatola, rientro in casa e la apro: oltre le lettere ci sono tante fotografie. Sono di mia madre da giovane, che sorride felice con altre ragazze, tutte ritratte in pose libere e sfacciate, tanti spiriti ribelli imprigionati in uno scatto. Non riesco a riconoscere i palazzi sullo sfondo che sono tutti in stile barocco e bellissimi. Fortunatamente, sul retro di una delle foto leggo: “Noto, Sicilia, la più bella vacanza della mia vita” e penso a quanto poco so di mia madre.

Mio padre è sempre stato presente, non mi ha mai fatto mancare niente, abbiamo parlato di tutto, perfino dei fidanzati e mi ha sempre incoraggiata a fare qualsiasi cosa mi piacesse, anche il corso di danza classica, lui che odiava ballare. Ha premiato i miei successi scolastici con viaggi indimenticabili e infatti abbiamo passato le nostre estati nelle più belle capitali europee, sempre insieme, indivisibili. Di mia madre invece non parlava quasi mai, sembrava che i ricordi della loro vita insieme fossero solo suoi, racchiusi in uno scrigno prezioso del quale solo lui aveva la chiave. Eppure sono sicura che mi voleva bene e che il loro fosse un matrimonio felice.

Poco tempo dopo la nascita della mia bambina, mio padre mi ha lasciato.

- Ora non hai più bisogno di me – mi ha detto l’ultima volta che ci siamo sentiti – Hai Alice a farti compagnia.

Sembrava quasi sapesse che era un addio.

Le lettere sono tante, tutte indirizzate a mia madre e mi colpisce una in particolare, datata 13 dicembre, pochi giorni prima della sua morte.

Ciao Agata,

vedrai che presto starai meglio, non ti devi scoraggiare, i medici ti hanno detto che potrai tornare a casa e allora ti assicuro che manterrò la promessa, verrò a trovarti, non vedo l’ora di conoscere la tua bambina. Siamo lontane, te a Firenze e io in Sicilia, ma festeggeremo insieme la tua guarigione come ai vecchi tempi, con tante risate e passeggiate in città, in cerca di qualche abito carino o di qualche libro interessante da scambiarci.

Un abbraccio, Margherita

In fondo alla lettera c’è il nuovo numero di telefono di Margherita che si era appena trasferita.

Il pomeriggio trascorre in un’atmosfera surreale e dopo aver chiamato a casa per parlare con Alice, telefono a Margherita che dopo pochi squilli mi risponde.

- Buonasera, sono Anna la figlia di Agata, vorrei parlare con Margherita – esordisco con la voce che mi trema.

Il telefono mi restituisce un silenzio irreale, ho paura che il mio interlocutore interrompa la telefonata.

- Ciao, Anna, Margherita sono io – mi risponde invece una voce calda ed emozionata.

- Ho trovato il suo numero di telefono in una vecchia cartolina che lei aveva spedito a mia madre – continuo per paura che questa conversazione irreale si interrompa – e mi sono permessa di disturbarla.

- Parlare con te mi sembra un sogno – risponde Margherita – hai lo stesso timbro di voce di tua madre, mi sembra quasi di tornare indietro nel tempo e di parlare con lei. Come stai? Spero che tua sia una donna felice.

- Sono serena – rispondo – ho un lavoro, un marito e una figlia, ma avrei voglia di sapere qualcosa di più della storia dei miei genitori, soprattutto di mia madre, non l’ho quasi conosciuta, mi sento incompleta, e, non so perché, telefonarle mi è venuto naturale.

- Eravamo grandi amiche. Quando è scomparsa ho provato a contattare tuo padre ma era come sbattere in un muro di gomma, non ho insistito, ho rispettato il suo dolore - mi risponde con voce commossa. – Mi piacerebbe tanto conoscerti, avrei tante cose da raccontarti.

- Potrei venire a trovarla – dico con uno slancio – non voglio disturbarla, i suoi ricordi mi potrebbero aiutare a capire tante cose.

Mi interrompo, quasi pentita di tanta arroganza.

- Sarei felicissima, ti posso ospitare a casa mia non ci sono problemi, mi devi dire solo quando arrivi.

- Prenoto il primo aereo per Catania per domani poi la chiamo quando arrivo a Noto. Perché lei abita sempre a Noto?

- Sì, sì, sempre nella stessa casa dove ci incontravamo con tua madre, dove siamo praticamente cresciute – risponde – ma ora basta con il Lei, potresti essere mia figlia.

La mattina alle 8:00 parte l’aereo per Catania, mi sento emozionata e impaurita, voglio sapere ma allo stesso tempo temo di scoprire qualcosa che non mi piace.

Arrivo all’aeroporto, trovo Margherita ad aspettarmi. Una signora di circa sessanta anni con dei grandi occhi verdi che mi sorride amichevole e mi viene incontro

- Come stai? – mi chiede commossa.

- Penso bene - rispondo a malapena – mi sembra strano che nel giro di poche ore una fotografia mi abbia portato in Sicilia, sono felice di conoscerti, anche se mi sembra di averti sempre conosciuta. Mi abbraccia forte.

- Vieni, andiamo a casa mia – dice.

La prima parte del viaggio è silenziosa, quasi imbarazzante.

- Io e tua madre eravamo grandi amiche, siamo cresciute insieme - mi racconta – I tuoi nonni erano molto attaccati alle tradizioni, tu sapevi che avevi dei nonni in Sicilia?

Mi sento sprofondare nel sedile della macchina.

- No, non lo sapevo. Ho sempre pensato che fossero morti prima della mia nascita.

Il sorriso di Margherita è un misto di amarezza e commozione.

- Immaginavo che nessuno te ne avesse parlato. Hanno ostacolato la storia dei tuoi genitori in tutti i modi e lei li ha rimossi dalla sua vita. Tua madre non aveva un bel rapporto con tuo nonno, era autoritario, un vero generale, non c’erano argomenti con lui. Tua nonna era succube del marito, forse ci soffriva ma accettava tutto senza protestare. Agata invece voleva vivere la sua vita, libera e quando ha conosciuto tuo padre ha deciso che lo voleva sposare ad ogni costo. Ha sofferto tanto per questa scelta, e fino a quando non sei nata tu diceva di avere un macigno nel cuore. Dopo la tua nascita era cambiata, il macigno si era frantumato e aveva lasciato il posto alla leggerezza e alla speranza.

Siamo arrivati in una fattoria e quando scendo l’aria fresca e accogliente mi solleva l’animo.

- Ora – dice Margherita - ho una sorpresa per te.

Sulla porta ci aspetta un signore di una quarantina d’anni dall’aria familiare.

- Questo è tuo zio, Niccolò – esordisce Margherita senza preamboli, come per levarsi un pensiero.

Niccolò, che ha gli stessi modi pacati di mia madre, mi stringe la mano. Gli occhi tradiscono un’emozione intensa, mi sembra che voglia abbracciarmi, ma gli manca il coraggio, allora sono io che mi faccio avanti.

Margherita ci fa accomodare in un salotto arredato con pochi bellissimi mobili.

- Da quando se n’è andata non ho più visto tua madre – rompe il ghiaccio Niccolò - Le volevo bene, riusciva a portare un po’ di leggerezza nell’atmosfera familiare. L’ho sentita tante volte per telefono di nascosto dai miei genitori, mi mancava. Le chiedevo consigli sulla scuola e sulle ragazze, poi s’è ammalata e con la sua morte ho perso una parte di me. Sono felicissimo di averti conosciuta, e che tu abbia il suo stesso sguardo.

Ho la sensazione che nella stanza non ci siamo solo noi tre, ci sia anche lei che mi abbraccia felice di sapermi finalmente più consapevole di chi sono. Mi compare sorridente come nei momenti felici quando il suo sorriso ammaliava il sole.

A questo punto sento il bisogno di tornare a casa. Sicuramente ritornerò in Sicilia e porterò mia figlia che mi aiuterà a chiedere altre notizie per capire meglio me stessa.

Stefania Bicci

[*incipit tratto da Honeymoon di Banana Yoshimoto]